E’ l’anno 784 ab Urbe condita: Maria è sotto la croce di suo figlio.
Cerca di capire. Si sforza di capire.
Ha accettato qualcosa di inaudito, in un’epoca in cui ripudio e lapidazione erano utilizzati per le donne adultere.
Chi era, adesso lei, per la gente? Come avrebbe reagito il suo giovane promesso sposo, il tèkton Giuseppe, posto davanti ad un simile affronto alla sua dignità?
L’aspetto umano di questa giovane coppia è al primo posto nel romanzo. Lei sa che quel suo fagottino è speciale. Lei, in cuor suo, crede a quel messaggero incontrato in un pomeriggio assolato alla fontana che le ha parlato di “Figlio dell’Altissimo”.
Ma lei è una donna, è una ragazzina e, le domande che si pone,
i grandi problemi che incontra, sembrano sovrastarla.
Ma lei non teme. Lei si impone di non temere.
“Non temere, Maria…” se lo ripeterà più volte, come sostegno,
nei momenti bui e di difficile comprensione.
Maria è la narratrice, tutta la vicenda è vista con i suoi occhi, i suoi ricordi, le sue emozioni di ragazza che, ad appena quindici anni, viene scelta per un compito straordinario: essere la madre del Figlio dell’Altissimo! Poi con gli occhi di una donna e di una madre vede il proprio figlio inchiodato ad una croce. Il romanzo storico ripercorre anche i rapporti tra i diversi gruppi di ebrei che vivevano nella Palestina di duemila anni fa e i rapporti con i vari popoli che hanno portato gli Ebrei ad essere governati prima da un re straniero, Erode Ascalonita, poi direttamente dagli stessi Romani, i quali distruggeranno in modo definitivo il grandioso Tempio di Gerusalemme, fatto ricostruire da questo re straniero, lasciando piangere gli Ebrei davanti alla parte di Muro rimasto ancora in piedi.